Germano Facetti


Ecco qui di seguito il testo dell'intervento tenuto dall'amico Gianluigi Ricuperati al convegno tenutosi a Torino nel settembre 2006 presso l'Istoreto
grazie

andren

Breve autobiografia di un libro appena concepito: l’archivio di Germano Facetti, le vite di Germano Facetti e una delle più straordinarie operazioni editoriali mai portate a termine. 

GIANLUIGI RICUPERATI


Il motivo per cui sono qua (ok – non sono qua, ma a volte la presenza è una funzione del testo, perciò: sono qua) è perché vorrei passare una parte della seconda metà del 2007 e della prima metà del 2008 a scrivere un libro addosso alla figura di Germano Facetti – anzi: addosso a quel lato della sua figura che viene celebrato in modo particolare qui oggi: l’archivio di immagini e documenti di violenza, di guerra, di morte in guerra e di Male storico. Il motivo per cui potrei reclamare qualche pallido titolo in una missione del genere è che nel 2006 ho pubblicato da Rizzoli un libro per immagini e testi chiamato Fucked Up che aveva al suo centro l’incredibile storia di Christopher Wilson, fondatore di un sito porno amatoriale cui i soldati americani di stanza in Iraq e Afghanistan hanno inviato migliaia di immagini scattate con i cellulari e le macchine digitali, costituendo così una delle più impressionanti registrazioni archivistiche istintive dell’idea e della pratica di guerra. Poi fra qualche mese uscità da Bollati Boringhieri una specie di memoir di nuovo per immagini e testi in cui racconto la strana esperienza di andare in Vietnam insieme a un artista, Amedeo Martegani, alla ricerca di fotografie, reperti, documenti, volantini e qualsivoglia altro detrito della guerra americana, ma di esclusiva matrice vietnamita – perché si trattava pur sempre dell’unico conflitto di cui il vincitore non aveva scritto la storia. Con la storia di Germano Facetti e del suo archivio, se gli eredi e le condizioni accidentali lo permetteranno, mi piacerebbe tracciare un terzo capitolo di una trilogia che risponde a una domanda tra le altre, una domanda che per qualche ragione mi ossessiona: che effetti hanno le guerre su coloro che non le combattono, su coloro che ne stanno lontani, geograficamente o temporalmente? Che effetti hanno le guerre sui figli e sui nipoti che non hanno ucciso?

Ora. Prima di provare a illustrare il come di questa impresa ancora embrionale ma già felice – e chi ha qualche dimestichezza con la fase nascente di una narrazione, romanzesca o non romanzesca che sia, conosce il timbro interiore cui faccio riferimento quando uso la parola ‘felice’ in questo contesto – ecco: prima, vorrei fare una breve digressione che ha a che fare con qualcosa che potrà sembrarvi addirittura spaventoso, come spesso sono spaventose le specularità appena scoperte: vorrei parlarvi dell’opera gemella dell’archivio di Germano Facetti. 


Un giorno di fine dicembre 2003, un lunedì mattina, a Manhattan, da St. Mark’s Bookshop,  mentre Paul Auster girava per i corridoi della libreria carico di romanzi gialli, ho usato gli ultimi 120 dollari del mio sesto viaggio a Ny per pagare in contanti un’opera intitolata Rising Up and Down di William T. Vollmann. 3.300 pagine di storie, riflessioni politiche e filosofiche, fotografie, indici e documenti - tutti ossessivamente incentrati su un unico tema, che potremmo definire con un po’ azzardo, il battere e levare della Violenza nella storia umana. Il cofanetto e i sette volumi in stile encicopledia Rizzoli-Larousse aveva titoli in similoro che recitano più o meno così: studi e conseguenze, il mondo musulmano; il nord america; giustificazioni alla difesa violenta della patria, degli animali, dell’ambiente; sud-est asiatico, africa; il calcolo morale. Insomma – un monumento al lavoro editoriale, alle possibilità della scrittura di indagare la realtà, di dare un ordine al magma, di dire qualcosa di autentico e parzialmente definitivo sulla natura umana - un oggetto delirante e insieme pieno di buon senso, innocente e non-innocente, ma soprattutto e principalmente delittuosa. Vollmann ha fatto una cosa che non si fa più: con ottime ragioni non si fa più e con ottime ragioni lui ha deciso di farla. Vollmann ha affrontato un argomento come un sistematore di saperi dell’età classica, o una specie di giornalista arcaico e cavalleresco, capace di mescolarsi con la materia di cui tratta senza alcun sussiego, senza cedere alla doppia tentazione che avrebbe reso tutto il lavoro irrilevante: quella di identificarsi completamente nell’attitudine dell’entomologo e quella di identificarsi completamente nell’attitudine della cimice. Ma di fronte a 3.300 pagine è meglio procedere con ordine, specialmente se vengono candidate a uno dei più prestigiosi premi letterari americani, il National Book Critics Circle Award, e riceve applausi un po’ attoniti da tutti i recensori.


William T. Vollmann è uno dei più importanti scrittori americani contemporanei, ed è anche un temibile grafomane – ha pubblicato saggi, reportage, romanzi spesso lunghissimi, e i suoi argomenti prediletti hanno sempre gravitato intorno al Grande Vertice dell’Esperienza, quello in cui incrociano i loro destini Prostitute, Tossici e Persone dotate di Armi. 

Di Rising Up and Rising Down si parlava da almeno dieci anni. Nelle riviste letterarie, i siti di fan, le newsletter e i discorsi dei cosiddetti addetti ai lavori – di tanto in tanto spuntava un frammento di quello che sembrava essere un mastodontico e fantomatico ‘lavoro’ sulla Violenza, un mostro senza capo né coda che tutti erano pronti a scommettere non sarebbe mai uscito: la mole, la mancanza di vendibilità, l’argomento, il profilo ‘alto’ dell’autore. Mandare Rising up and Rising Down nelle librerie normali era considerata un’impresa semplicemente folle, e nessun editore si sarebbe accollato i costi e il tempo di preparare per la stampa un elefante di carta di queste proporzioni. Il cinismo sociale imponeva a tutti di aggiungere commenti sprezzanti sulla ‘perdita di tempo’, su come ‘un talento narrativo andava sprecato’, su che senso avesse dedicarsi per tante stagioni della propria vita a un’opera senza mercato, senza lettori, senza utilità. Tutti si domandavano perché Vollmann non scriveva l’ennesimo romanzetto, l’ennesimo libro di non-fiction, l’ennesimo sforzo ragionevole. Dall’altra parte c’erano gli editori, che si dicevano pronti a ‘venire incontro’ a Rising Up and Rising Down se l’autore fosse ‘venuto incontro’ alle esigenze commerciali. Grazie alla saggezza di Vollmann, non è successo niente di simile – niente ‘venire incontro’, niente ‘esigenze’, e naturalmente niente editori. Le 3.300 pagine avrebbero continuato a rimanere nel cassetto – e la saggezza risiede nel sapere che il cassetto è l’ambiente in cui un’opera letteraria viene svezzata, impara a sopravvivere, conosce le regole fondamentali del sovraffollato habitat editoriale, cioè: un libro mette il naso là fuori e trova soprattutto poca aria, pochissima luce, spazio ridotto a zero. 

 La speranza di tutti gli scrittori davvero ambiziosi è che prima o poi incontreranno degli editori disposti a fare il loro mestiere, ossia sprecare denaro per rendere la vita pubblica un po’ più interessante. L’eroe, in questo caso, si chiama McSweeney’s Books, il braccio con cui l’omonima rivista fa il possibile per rendere la vita pubblica un po’ più interessante. Le cose sono andate come segue. McSweeney’s Books trasferisce il quartier generale a San Francisco, città natale di Vollmann. Sul numero 8 della rivista compare un estratto di Rising Up and Rising Down. Poi un giorno Dave Eggers, lo scrittore che poi in questo caso è anche l’editore, decide che è arrivato il momento di sprecare soldi. Incontra in un ristorante di San Francisco Vollmann insieme alla sua agente ed Eli Horowitz, giovane redattore della casa editrice, e insieme decidono che l’oggetto va partorito. 


Il volume più sottile di Rising Up and Rising Down conta 282 pagine, e contiene tutti gli indici, le introduzioni, gli schemi, le presentazioni, le bibliografie e i ringraziamenti. Ecco. Quando uno scrittore si mette a progettare un oggetto del genere, la prima cosa che fa è tracciare degli schemi – l’ultima è verificare se alla fine di tutto quegli schemi avevano senso. A questo punto bisognerebbe raccontare con una certa precisione la sostanza di cui è fatto Rising Up and Rising Down, che non è propriamente la sostanza di cui sono fatti i sogni. L’ispirazione è fornita dalla sostanza di cui è fatto l’uomo, si potrebbe riassumere: sopraffazione, strategia, controllo reciproco, sterminio, tortura; ma anche scrupolo, opportunità, aspirazione all’equilibrio, paura di rompere i patti di stabilità, e diciamolo – un oscuro desiderio di pace, dentro cui si nasconde un oscuro desiderio di guerra. Ma a questo punto bisognerebbe anche dire la verità: non si possono leggere per intero 3.300 pagine così, e com’è ovvio non sarebbe il modo migliore di affrontare Rising Up and Rising Down. Il modo migliore, forse, è entrare in ciascun volume con l’idea di trovarci qualcosa di necessario, qualcosa che si possa contenere in una frase o due – come le idee migliori. E lo si trova sempre, persino aprendolo a caso. 


 Il ‘calcolo morale’ è l’ossessione che governa l’intera immane fatica di William Vollmann. Subito dopo il frontespizio, una pagina bianca, una domanda in corsivo: quand’è che si può gisutificare la violenza? E’ l’inizio giusto. Il lettore capisce subito che non incontrerà consolazione – incontrerà soprattutto quella che un tempo si chiamava ‘ricerca della verità’. Vollmann costruisce una sorta di atlante morale della violenza, spostando l’asse della questione sull’idea di ‘difesa violenta’.  Portando all’attenzione del lettore casi singoli come quelli di Stalin, oppure scendendo venti secoli prima, nella Roma di Bruto, o prendendo in considerazione tutte le varianti in cui si riscontra la giustificabilità morale dell’uso della violenza, dalla difesa della terra alla difesa degli animali, dalla difesa della patria a quella della classe.

Gli altri volumi affrontano il tema sviscerandolo con passione e precisione quasi infantile. L’opera di Vollmann si divide in due parti. La prima occupa i primi quattro tomi, e si intitola significativamente ‘Categorie e Giustificazioni’. (In lavori come questo i titoli e i sottotitoli rivestono un’importanza particolare). Ogni tanto l’autore si ricorda di esssere un poeta, in qualche modo, e conia espressioni come ‘definizioni per atomi solitari’ subito prima di affrettarsi a spiegare che sta per illustrare ‘i diritti e le responsabilità del sé individuale’, e infilzare una serie di saggi sulla moralità e sull’estetica delle armi, sul rapporto tra fini e mezzi, sul concetto di autorità e di nuovo, in maniera ancora più approfondita, sulle numerose sfaccettature dell’idea di ‘difesa’. Arrivati al quarto volume Vollmann decide di allargare ulteriormente l’obiettivo della sua indagine e si occupa senza mezzi termini delle basi teoriche che regolano la ‘pratica violenta’ all’interno delle politiche degli stati nazionali e tra gli stati nazionali; poi lo restringe di nuovo alla sfera dei rapporti personali, cercando di dare un quadro del sadismo e del sadomasochismo nel sesso. E’ tutto molto interessante, e il merito di Vollmann è di non cedere mai troppo alle lusinghe dell’astrazione, fornendo sempre esempi nomi e dettagli – ma tutto finisce per suonare come un riassunto di venti secoli di filosofia morale, e di storia dell’umanità – scritti supremamente bene, peraltro.  

Ma è la seconda parte, chiamata ‘studi e conseguenze’ che attrae davvero l’attenzione, spostando il peso dell’opera su ciò che un narratore dovrebbe ricordarsi sempre di fare, anche quando si lancia nelle più spericolate avventure saggistiche, ovvero: raccontare. Vollmann qui raccoglie il frutto di anni e anni di reportage d’autore, e vediamo sfilare narrazioni dal vivo dalla Cambogia di Pol Pot alla vita dei cambogiani sopravvissuti in America, uno splendido ritratto collettivo della mafia giapponese, alcuni terribili affondi autobiografici dalla guerra in ex-Jugoslavia e dall’Africa – e infine quella che è probabilmente la vetta del libro, una lunga serie di pezzi da inviato speciale nel ‘Mondo Musulmano’, seguita dall’inevitabile ritorno in patria con tanto di pntatina persino sul massacro di Columbine e poi giù in Sudamerica, con i narcotrafficanti della Colombia. 


E così ho detto di Vollmann e del suo gigante. Ma scendendo di dimensioni e gradi - come potrebbe essere strutturato il libro che ho in mente su Germano Facetti?


Si tratta di costruire un libro a metà fra il reportage culturale, la narrazione biografica, l’investigazione saggistica, il documento storico-iconografico e la narrazione tout court. Raccontare e illustrare un inaspettato, singolarissimo capitolo della storia delle immagini che s’intreccia con una vicenda umana straordinaria, all’ombra di Mathausen, dell’Italia del boom e di tante altre traiettorie psichiche, geografiche, psico-geografiche, storiche e definitivamente individuali. Mi piacerebbe avesse un tono da scrittura narrativa partecipe e mobile – come i libri di George Plimpton, in cui molte voci di conoscenti e amici di un soggetto si alternano come in una ronde alla Max Ophuls, e l’autore si mette allo stesso livello degli altri, limitandosi a costruire piccoli steccati divisori strutturali, magari con titoli dickensiani del tipo ‘In cui il nostro personaggio, etc’. O meglio – questo lo faceva lui: ma in questo caso si potrebbe utilizzare la girandola di voci narranti perché nulla restituisce meglio la prismatica complessità delle figure prismatiche e complesse. Ma niente Dickens, dai. Piuttosto: una struttura a cassetti intercombinanti: interviste, storia orale, verifiche sul campo, analisi, momenti di ‘poesia storiografica’, racconto e note varie. E naturalmente devono esserci le fotografie. Bisogna trovare un modo che funzioni e abbia senso e originalità per inserirle in modo utile e efficace (anche esteticamente) all’interno di questa energica tragedia storica a semi-lieto fine. Un incubo ben riuscito. Un titolo, o un sottotitolo, potrebbe essere: collezionare è un trauma.


Non so ancora niente dell’archivio di Germano Facetti. Ne saprò poco anche dopo aver scritto il libro. In operazioni simili ci sono troppe angolazioni, troppi paesaggi, troppe ragioni esaminate, coinvolte, analizzate – troppi frammenti associati l’uno all’altro, in definitiva. Il rischio è di accorgersi che quasi sempre il calcolo morale subisce l’invadenza della passione, perfino di quella dell’autore stesso. Una certa passione estetizzante per il momento in cui il proiettile diventa espressione della volontà, il grilletto diventa espressione dell’istinto, il contraccolpo dell’arma si trasmette ai nervi come un rimorso di appartenenza. Ciò che turba è che come in una preghiera si possa arrivare a ringraziare la Sorella Violenza come l’ombra paterna e materna dell’evoluzione della Specie – l’unico calcolo morale il cui risultato dev’essere sempre diverso da zero. 


New York – Montréal  - Torino, settembre 2006 

1 commento:

Anonimo ha detto...
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